martedì 6 marzo 2018

Facciamo il bucato

Ogni tanto mi prende una piccola curiosità riguardo certi modi di dire della nostra lingua. E' il caso della locuzione "fare il bucato", che mi ha incuriosito proprio mentre realizzavo quanto siamo fortunate noi donne di oggi rispetto a quelle anche solo di sessant'anni fa, soprattutto per quanto riguarda le incombenze domestiche.





 Quanti aiuti meccanici abbiamo che ci alleviano la fatica, se non la seccatura!!









Ma perché si dice “fare il bucato”? Perché, se i capi li abbiamo appena lavati, non chiamiamo lavato quello che di solito chiamiamo bucato?
La parola bucato fa pensare a qualcosa di rotto, di malconcio. A meno che non abbiamo commesso errori fatali, in fase di lavaggio, i nostri panni quindi dovrebbero uscire dalla lavatrice belli, puliti, profumati e perfettamente integri.
Da dove nasce, quindi, quest’espressione? 

Il viaggio nella storia delle parole è sempre affascinante. Ci porta spesso lontano, nello spazio oltre che nel tempo, e ci regala nozioni che raccontano di migrazioni, di contatti tra popoli, lingue e tradizioni e, a volte, di madornali quanto banali errori di trascrizione.Ma è un’escursione interessante, e vale la pena iniziare questo viaggio etimologico.




Le informazioni a riguardo sono molte e molto diverse tra loro; alcune risalgono a epoche talmente lontane, nel tempo, che diventa difficile immaginare un nesso con la nostra quotidianità.
Una prima attestazione scritta, “bocato”, compare agli inizi del Trecento e si riferiva al lavaggio e all’imbiancatura dei panni con acqua molto calda, anche se pare che una precedente forma “buada”, si trovi in un documento notarile scritto in volgare ligure alla fine del XII secolo. Alcuni studiosi ipotizzano che l’origine dell’odierno bucato sia legata ad un sostantivo latino, originariamente neutro plurale, “bucata”, legato a sua volta al verbo germanico “bukon”, con cui si identificava l’operazione di “immergere e lavare con lisciva”, o al tedesco di area svizzera “buchete” con cui si indica, letteralmente, “l’insieme dei panni messi in bucato”. La lisciva si ottiene bollendo per ore la cenere in acqua; si ha in questo modo un’acqua alcalina, particolarmente ricca di carbonati e quindi caratterizzata da un forte potere sgrassante e sbiancante.





Le ricostruzioni storiche permettono di presupporre che l’introduzione di questo termine si debba quindi ai contatti, sia di usanze che di lingue, avvenuti in epoca tardo-imperiale tra i popoli germanici e i soldati romani accampati nei contingenti militari, situati ai margini dell’Impero: dovremmo quindi forse proprio ai barbari l’introduzione di questa usanza? Può darsi.
(fonte: Treccani.it).

Altre voci portano altrove, dando un’origine molto più pratica all’espressione in questione.

Sappiamo che la lavatrice moderna è un’invenzione relativamente recente, che risale agli inizi del XX secolo se pensiamo al primo modello elettrico e al secondo dopoguerra in termini di diffusione di massa.




Ma prima, come si lavavano i panni? Ogni epoca ha avuto per protagoniste le sue usanze. E la lisciva è un elemento che ricorre spesso.
C’è stato un tempo in cui si usava mettere i capi dentro a dei grandi mastelli in legno, riempiti sempre con acqua bollente e cenere. Il peso dei recipienti era tale che rendeva praticamente impossibile una qualunque manovra di rovesciamento; per svuotare quindi il contenitore veniva posto, sul fondo, un tappo in legno che si andava a togliere, dopo che i capi erano rimasti in ammollo anche per alcune ore, per eliminare l’acqua sporca e procedere poi con i vari risciacqui e la strizzatura finale. 




Con la parola bucato, quindi, secondo questa ricostruzione, si farebbe riferimento non tanto al contenuto, quanto al contenitore stesso che era, appunto, bucato sul fondo.
L’odierna parola bucato si trova poi declinata in varie lingue europee, e mantiene sostanzialmente in tutte un significato che la collega al concetto di lavare e lavare con lisciva.

Altre fonti parlano di un’usanza secondo cui “le donne di villa suolessero farlo in un tronco d’albero smidollato e bucato dal tempo, ovvero per la usanza di colare il ranno (altro termine per definire la lisciva, sempre di origine germanica e usato per lo più in area toscana – n.d.r.) attraverso a un panno minutamente foracchiato (ceneraccio) sovrapposto ai panni sudici, che sono nella conca”. Bucato, in questo caso, sono un tronco d’albero e/o un panno utilizzato durante il lavaggio.
(fonte: Etimo.it).




Altre ipotesi, al contrario, suggeriscono che con bucato ci si riferisse proprio ai capi che, sottoposti a un lavaggio tanto aggressivo, subivano certamente un’usura che si manifestava proprio con strappi o buchi. Va detto che, non a caso, un tempo i tessuti erano molto più spessi rispetto a quelli odierni: infatti, un comune cotone dei giorni nostri non potrebbe resistere ad un trattamento di questo tipo! Per lo stesso motivo, si prediligevano i tessuti bianchi a quelli colorati.




 Anche se c’è, grazie forse proprio alla lisciva, una certa correlazione tra le diverse ipotesi e ricostruzioni fatte dagli storici, alla fine di questo viaggio etimologico possiamo dire che, in realtà, l’unica certezza è che non c’è certezza: manca una tesi univoca.
Non è possibile quindi stabilire con precisione da dove nasca l’espressione “fare il bucato”. 









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